De Gregorio, il Vegliardo - STAUROPOLIS

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NOME E COGNOME

Non sappiamo a che ora si alzasse il canonico De Gregorio.
Narra la leggenda che fosse lui a tirar giù dal letto il sole. Di certo alle cinque era sul posto di lavoro, alla scrivania. Dopo aver detto Messa, s’intende. Era quella la prima impresa della giornata, l’Opera Grande.
Anche di lunedì, alle cinque. Dopo aver trascorso al chiodo il week-end, da ministro del Signore nella chiesa cammaratese di San Domenico. Anche da ottuagenario. Dopo aver fatto oltre 50 km per tornare ad Agrigento.
Beh, non ci crederete, ma il cognome “De Gregorio” viene da un verbo greco che – parola di Lorenzo Rocci – traduciamo bene con “veglio, son desto, vigilo”!
De Gregorio, però, non ha vegliato solo sui libri.
Ha vegliato soprattutto sulla sua adorata Chiesa agrigentina. Come una madre sul suo bambino, magari febbricitante; come lo sposo sull’incolumità della sposa; come un nocchiero, sulle acque del secolo. La sua sconfinata articolistica testimonia tale insonne e indomita cura.
L’ha amata questa Chiesa, offrendo per essa, in sacrificio di soave odore, il suo tempo e le sue energie, le sue gambe e la sua testa, la vita.
Ha vigilato. Come un cane catenario nella notte.
E non sembri irriverente l’accostamento. Fu, infatti, il padre dell’ordine dei predicatori, Domenico di Guzmàn, che elesse a scudo di nobiltà, per sè e per i suoi, l’immagine di un cane che reca, nella bocca, una fiaccola accesa. Domenicani, dunque, non solo perché figli della religione di Domenico, ma anzitutto perché Domini Canes, cani del Signore, che portano nella bocca la fiamma della fede, cioè che annunciano il Vangelo di Gesù Cristo al mondo.
E’ di tutta evidenza, allora come la persona di Domenico De Gregorio sia stata il nome che portava, abbia portato a compimento quanto in lui misteriosamente seminato nel nome.
Giovedì 26 giugno 2008 alle ore 18.30, il Capitolo Metropolitano, con il Vescovo e la Chiesa agrigentina, gli intitoleranno il sagrato di quella Cattedrale che ha teneramente amato e appassionatamente raccontato.
Sulla lapide quel nome e quel cognome: Domenico De Gregorio. Niente di più. Se vi pare poco…

Giovanni Scordino, Nome e cognome.
Intitolato a Domenico De Gregorio il seicentesco sagrato della Basilica Metropolitana.
L'Amico del Popolo, 29.6.08



DISCORSO SULLA STORIA DELLA CHIESA
di Domenico De Gregorio

Ricorda i giorni del tempo antico,
medita sugli anni lontani;
interroga tuo padre e te lo farà sapere
i tuoi vecchi e te lo diranno
(Dt. 32,7).
Interroga pure i tempi antichi
che furono prima di te...
che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio...
(Dt. 4,40).

Personaggio, spettatore, commentatore, lirica espressione di sentimenti o passioni, il coro, nelle tragedie greche, legato al dramma, o ad uno dei protagonisti, o del tutto staccato e dall'azione e dai personaggi, ma come loro portavoce, è un elemento sempre presente e necessario.
"Il coro delle tragedie classiche è da riguardarsi - scrive lo Schlegel, citato dal Manzoni - come l'organo dei sentimenti del poeta".
Parlando, dei cori delle sue tragedie, poi, il Manzoni affermava che essi avevano "un altro vantaggio per l'arte: riserbando al poeta un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno le tentazioni di introdursi nell'azione; di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti" (A. Manzoni, Prefazione al Carmagnola).
Molto spesso nei libri di storia si nota una miscela, anzi un miscuglio, tra gli eventi e i loro protagonisti con la prepotenza del rerum scriptor che, dimentico del suo compito e dovere, o li fa parlare e agire come vuole, o ha sempre "pronta una risposta", o una interpretazione, "da dare in nome" di...
Egli arbitrariamente assume la maschera di giudice, amico, nemico poiché nessuno gliene ha conferito una delega.

Adopero qui la parola discorso non tanto nel senso del Tommaseo come "grave o familiare, scritto o improvvisato di qualsiasi genere, sopra qualsiasi argomento" (N. Tommaseo, Dizionario dei sinonimi), ma in quello etimologico, non certamente di "disperdersi, sbandare", ma di correre con il pensiero, andare qua e là, senza una strettissima concatenazione logica.

Discorre ad ora ad or subito foco
movendo gli occhi che stavan sicuri
(Dante, Paradiso, 15, 14-15).

Come dei muri a secco

Narrando la storia della Chiesa agrigentina, mi sono astenuto dall'intervenire con giudizi, riflessioni, osservazioni perché non volevo interpretare e travisare i fatti, ma solo farli conoscere, attraverso prove e documenti. Ho costruito, certo, dei muri a secco, senza intonaci falsamente colorati; essi però si reggono sulla connessione delle loro pietre, come certi edifici antichi... o quelli che oggi i restauratori scrostano, per mostrarli nella struttura originale...

Durante le ricerche e la stesura di questi volumi, mi sono più volte domandato se ne valesse la pena (oltre la necessità di rispondere a miei interrogativi o curiosità) scriverli e pubblicarli e, a volte, mi sembrava di sentire la domanda tipicamente siciliana: Chi le lo fa fare? oppure riudire le parole rivolte a messer Ludovico: donde avete prese tutte queste corbellerie?
E’ vero che la parabola dei talenti e del seminatore mi sollecitavano e mi incitavano: ma non erano paraventi alla mia ipocrisia e scuse alla mia ambizione?
Quelle parole di Cicerone: Nescire quod antequam natus sis acciderit id est semper esse puerum (Cicerone, Orator 34). Ignorare ciò che è accaduto prima della tua nascita, equivale ad essere sempre bambino, oppure quelle: Wer keine Herkunft hat der hat auch keine Zukunft (Chi non ha passato non ha avvenire) mi sembravano un conforto alla crescita e alla maturazione, e quasi una assicurazione per il futuro: ma non era puerile illudersi di essere adulto e addirittura ipotecare l'avvenire?
Rettificavo, certo, l'intenzione, a gloria di Dio e per il bene della Chiesa, nella esaltazione dei suoi santi e del bene compiuto e nella confessione delle sue deficienze, proclamando e sperando nella misericordia di Dio.
Mi sentivo sincero, ma lo ero? Nella volontà e deliberazione certamente; ma i giuochi dell'inconscio possono comprendersi nella preghiera: ab occultis munda me?

Certo, questo lavoro è un frutto: acerbo, maturo, sfatto? I gusti sono diversi: a tutti resta la libertà di non coglierlo e, se colto, buttarlo, qualora non corrisponda alle aspettative.

La Madre e la Maestra

La Chiesa è composta da peccatori e da giusti, da convertiti e da convertendi, da anime cioè che si convertono progressivamente o con cadute e riprese.
Dalle varie definizioni o descrizioni della Chiesa si possono arguire le direttrici fondamentali della sua storia:
Se è "chiamata e raccolta” dei fedeli, la sua storia deve ricostruirle e narrarle, riferendo sulle persone che le hanno compiute, i mezzi, i metodi, i successi, gli insuccessi; le risposte, i rifiuti, le defezioni.
Se "comunità” si deve ricercare ciò che tale la rende, la conserva, l'arricchisce e ciò che la debilita, la scompone, la disordina, la spezza e frammenta; se può dissolversi, se può, il singolo, isolarsi, scomunicarsi.
Se "assemblea” e in servizio di Dio, come si autoconcepisce, si organizza, si esprime e come, se, quando, dove, perché, compie questo servizio.
Per Chiesa può intendersi, e deve, la "concreta comunità locale” che perciò ha inizio, importa riferimenti spazio-temporali, caratteristiche proprie, deficienze, realizzazioni.
Il concetto di "Corpo di Cristo” applicato da S. Paolo alla Chiesa (Gl. 3, 27) importa nascita, sviluppo, tutela, nutrimento, distruzioni, amputazioni, e tra le membra rapporto, funzionalità, finalità, salute o malattia, ciò che incrementa o consuma, ciò che avvelena o migliora vita e funzione.

Una errata ecclesiologia, teoricamente da tutti rifiutata, ma che, praticamente, guida tanta prassi ecclesiastica, potrebbe così schematizzarsi: la Chiesa è l'edificio sacro, non le case degli uomini; la Chiesa è il papa, non i vescovi, i sacerdoti, i fedeli; la Chiesa è il vescovo, non il suo clero e i credenti della diocesi; la Chiesa è il parroco, non i sacerdoti, i fedeli della parrocchia.
Al massimo si fa una concessione: il papa chiama ad aiutarlo i suoi fratelli cardinali; il vescovo i suoi figli e confratelli sacerdoti; il parroco i suoi filiani: con una degnazione sommamente apprezzabile e degna di imperitura gratitudine: altrimenti non si sarebbe Chiesa.

La storia, come ricerca, studio, connessione dei fatti umani (historia rerum gestarum) abbraccia la totalità degli eventi e delle opere degli uomini perché espressione e manifestazione della loro anima e cultura.
Studia perciò e narra le loro opere - accertatane la verità con critica oculata - e i loro rapporti, come si sono originati, sviluppati e conclusi (per quanto si può sapere in un periodo ragionevole di tempo: chi, nel Cinquecento, avrebbe immaginato il preraffaellismo?) e delle conseguenze che ne sgorgano.
La storia è studio di eventi successi nel tempo, in un territorio, con i loro protagonisti, attivi e passivi, secondo la prospettiva in cui li si voglia cogliere, spiegare: politica, economica, militare, istituzionale, religiosa, artistica, culturale, avvenimentale, giuridica, morale.
Si parla di cronologia, diacronia, sincronia come distinzione di metodi investigativi o narrativi; la storia non può fare a meno della cronologia, così non può separare e contrapporre diacronia e sincronia: deve, anzi, valorizzarle come diversità convergenti nell'illuminare gli stessi fatti, concorrendo ad una migliore messa a fuoco.

Si dice che la storia nasca dall'esigenza di comprendere il presente o che sia ricerca ed esposizione delle vicende passate per illuminare e comprendere il presente.
Ma esigenza di chi?
La massima parte della gente non prova questa esigenza; alla Chiesa Agrigentina non è mai importato - per quel che sappiamo - conoscere il suo passato, tanto vero che sono pochissimi i lavori storici del passato e, in genere, di scarso valore, oppure provengono da bisogni estremamente concreti: la difesa di un cespite finanziario, o di un confine, o di censi e decime.
Solo alla fine del sec. XIX si pubblicarono studi sulla sua storia dal can. Antonino Lauricella.
Secondo il Croce la storia risulta dalla ricerca, critica, interpretazione e comprensione del passato e dalla sua narrazione artistica (infatti la chiama "genere di produzione artistica").
Si distingue tra storici che solo narrano o descrivono (e non sarebbero veri storici) e storici che interpretano e giudicano; ma questo è veramente possibile? Lo storico narra, cioè coordina, connette i fatti, li collega alle conseguenze, non sempre prevedibili, quando si svolgono, cioè, li interpreta e, riferendoli al presente, li giudica.
"Ogni vera storia è storia contemporanea" egli scrisse (B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1954, pag. 45) ed oserei aggiungere dimensionale intendendo che si compenetra con la particolare, vista nella generale (universale, nazionale, provinciale, delle istituzioni - religiose - diritto - politica, militare, economica).

La storia non varia perché il passato è immutabile; ma può essere, e necessariamente è, illuminata e vista in modo diverso da ogni storico, sia per quanto riguarda la sua persona (età, formazione, credenze) come per le ragioni del suo studio e le finalità della sua ricerca, perché la storia è, anche, necessariamente azione.

Si rivisita il passato, per rifugiarsi, in esso - essendo invivibile il presente, ma nell'atteggiamento polemico c'è sempre la speranza del mutamento - o per vivere il presente, correggendolo, migliorandolo, o perfino condannandolo, ma per preparare l'avvenire; per comprendersi e trasformarsi, almeno intenzionalmente, migliorarsi o perfezionarsi.

La storia non è definitiva perché ad ogni risposta che offre, pone interrogativi per ulteriori domande: anche per la storia nasce "a pie del vero il dubbio".
Non potrà dunque mai esaurirsi nella sua oggettività e imparzialità; miniera inesauribile, lavoro di Sisifo.

Celebre il passo del De Oratore di Cicerone: Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis (Cicerone, De Oratore II 36).
La storia: testimone dei tempi, splendore della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell'antichità.
Frase elegante, sonora, oratoria, ma vera?
La storia è spesso fatta dai vinti, ma contro i vincitori; se la scrivono questi ultimi vi cercano le ragioni o le giustificazioni, a posteriori, della loro fortuna, del sangue versato e fatto versare e dei danni arrecati dalle loro vittorie.
E la luce della verità? Al massimo, può essere testimone del tempo o messaggera del passato, non certo vita della memoria: quanta storia si dimentica e si vuole scordare (bellissimo: lasciare cadere dal cuore: guai a colui che è morto nel cuore di qualcuno!) o per non arrossire, o per non impallidire, o perché urgono fatti più impegnativi e spirano sentimenti più forti.
E maestra della vita?
"Signora maestra che non fa lezione" scrisse Alberto M. Ghisalberti il quale conclude:
"Non insegna proprio nulla la storia? No, qualche cosa insegna, anzi, molto: che bisogna lavorare, lottare, soffrire. Sperare anche" (A.M. Ghisalberti, in Rassegna storica del Risorgimento, 1969, pagg. 288-289).
Bella costatazione. Ma c'era bisogno della storia?
Ma perché bisogna lavorare, lottare, soffrire, sperare? Questo la storia non può dirlo, se non tiene presente il suo segreto pregnante e dirompente: la Incarnazione.

Teandrica

La Chiesa è una realtà teandrica come il suo Fondatore di cui è il Corpo Mistico: il suo lato o aspetto più importante e valido, definitivo e immortale, resta del tutto al di fuori di ogni ricerca (istoria), perché trascende la nostra capacità conoscitiva.
La Chiesa, però, come istituzione ha una sua storia perché in connessione con l’ambiente sociale, e in interazione con esso, vive, agisce, opera, consegue dei successi o insuccessi; ma allora è storia degli uomini di Chiesa e delle loro realizzazioni: Corpo Mistico; sarà possibile dalla corporeità risalire al mistero?
La missione della Chiesa è quella di seminare; è sintomatico che il Vangelo non riporti una parabola analoga a quella del seminatore per la raccolta, la constatazione o verifica dei risultati; deve dunque la sua storia ignorare o svalutare bilanci e giudizi? Certamente no; ma su quali voci: battesimi e apostasie? i saggi o ricerche di mercato, secondo il consumo; di che cosa? le ostie, le candele, l'energia elettrica, la frequenza o l'assenza dei fedeli?

La storia della Chiesa può anche considerarsi come quella della sua espansione: all'interno: miglioramento, intensificazione, perfezione della vita cristiana; come all'esterno: conquiste missionarie.

La fede cristiana è, certo, prima di tutto fede in Dio; e in Dio creatore, perciò anche nel mondo che da Lui ha inizio, ma non raggiungerà il suo fine se non per mezzo della Chiesa che, per questo, è anche ingaggio, impegno per il mondo cui predicare, operibus et verbis, il vangelo di salvezza; non solo come un araldo che bandisce, ma come lievito che permea, fermenta, trasforma.

E l'associazione trono - altare o, viceversa, teologia di liberazione? Può l'azione politica (altare - trono, trono - altare) intendersi come missionarietà (il basileus isapostolos, il pontefice o il vescovo guerriero)? Certo lo fu nel passato, ma potrebbe esserlo, anche se in altra forma, nell'avvenire? Come idee cristiane: eguaglianza, libertà, fraternità, evangelizzate da istituzioni non ecclesiastiche o addirittura dai principi agnostici (ONU)?

C'è una espansione del cristianesimo in ogni generazione, in ogni individuo che nasce: deve, infatti, essere battezzato, ricevere l'annunzio, santificarsi con i sacramenti. Questa azione si compie sempre nella Chiesa e si è compiuta anche se non la si dice missionaria; perciò tutto quello che vi ha contribuito è storia della Chiesa.
La missionarietà di San Gerlando così non è venuta mai meno e nel corso dei secoli, secondo i bisogni dei tempi o le loro prospettive, è continuata sino ad oggi.

La storia della Chiesa è opera dei suoi "eroi"? Può essere vero; ma questi da dove vengono? Alle cariche anche più alte si arriva senza classismi - almeno teoricamente - come avvenne nella Cristianità primitiva. Perciò sarebbe una sublimazione del popolo l'ascesa di tanti eroi arrivati alle cariche più alte, o, cosa che conta molto di più, anzi, che veramente conta, alla santità?
Gli eroi in quanto tali non pervengono alle altezze; ma solo i santi che Lo hanno seguito: vera linfa vitale di ogni azione.

Popolo, continuità e sovranità locali

Un aspetto che impressiona nella storia della Chiesa è l'assenza quasi completa del popolo, sempre oggetto delle attività dei suoi uomini, mai protagonista.
Santi, papi, vescovi, personaggi che spiccano per l'uno o l'altro motivo sono o appaiono come i protagonisti; purtroppo non abbiamo che scarsissime notizie sulla vita e il comportamento del popolo e solo indirettamente, per esempio, le prescrizioni sinodali, i discorsi dei predicatori, le pagine dei casisti: indizi che non permettono di cogliere la vera realtà.
Progressivamente, il popolo, è stato allontanato dalla partecipazione agli eventi più importanti - se non come claque - spettatore pagato per applaudire l’elezione dei vescovi, dei presbiteri, dei parroci: ne restava solo traccia nell'ordinazione, per altro attraverso la domanda rivolta non al popolo, ma a chi una volta (assai remota) era responsabile della formazione del clero (oggi con una lievissima innovazione). Era una domanda puramente di rito:
Sai se ne è degno?
Ma non per i vescovi; per loro basta il mandato apostolico.
Non veramente partecipe, o solo passivamente, il popolo si è allontanato dalla Chiesa e rimane, praticamente, indifferente a ciò che in essa avviene.
Solo quando crede di aver subito un torto - rimozione o trasferimento di un parroco o sacerdote, smembramento di una diocesi o parrocchia - interviene per protestare e quasi mai gli si da o ha ragione, anche perché quasi sempre non l'ha.

Nello spazio e nel tempo, la storia della Chiesa studia la sua vita interna, il suo influsso nella società e, attraverso di essa, la presenza di Cristo nel mondo, la sua azione concreta per mezzo dei pastori e del gregge. Vi si comprenderebbe anche l'incorrispondenza o la debolezza degli uomini - gerarchia e popolo - nel rendere presente Cristo e testimoniarlo.

La si potrebbe anche intendere come risposta alle esigenze e alle domande del mondo, secondo i tempi e le aspirazioni dei popoli: giustizia sociale, eguaglianza, liberazione politica o economica, partecipazione democratica, libertà, tolleranza.
Ma la Chiesa ha risposte per i problemi più alti: donde vengo? dove vado? Per i problemi più bassi e concreti, pur avendo nel tesoro delle sue dottrine risposte adeguate, non le ha sapute trovare a tempo, ed è stata preceduta e sorpassata dalle meditazioni dei filosofi e pensatori, dalle rivoluzioni, dalle leggi degli stati (istruzione, voto, scolarizzazione, democrazia) perché tali risposte non le ha cercate, o volute, al suo interno teocraticamente sempre gerarchizzato.

Tante sono le sfide e le provocazioni degli uomini e dei tempi: la Chiesa ha saputo rispondere? Per la Chiesa locale, spesso, provocazioni, richieste, domande e sfide sono territoriali, con caratteristiche e sfumature che sono vere differenze tra Chiese e luoghi vicini.
Le risposte sono o quelle prefabbricate, magari corrispondenti ad altri ambienti, oppure bisogna trovarle sul luogo; ma assai spesso manca la creatività, la libertà o autonomia di trovarle, applicarle, o anche la capacità stessa di decifrare e comprendere le domande: qualunque risposta allora diviene inadeguata, insoddisfacente.
Hanno le Chiese particolari una propria fisionomia? Deriva dai fattori storici e ambientali, come quella della regione in cui si trovano, o da propri tratti caratteristici?
Di solito non sono molto evidenti, o effettivamente operanti.
Questo perché non trovano possibilità di esprimersi o manifestarsi e svilupparsi, perché ogni vescovo si sente come lo stampo con cui formare la chiesa che regge; si ritiene in dovere di applicare la S. Scrittura in tutte quelle massime che conosce meglio o fanno al caso suo: una delle bandiere più spiegate è quella multicolore: Ecce, nova facio omnia.

Ho sentito raccontare che un parroco, all'inizio dell'episcopato di mons. Peruzzo fu rimosso dal suo incarico perché, per anni, aveva coltivato, e con buon successo, due confraternite di uomini, un foltissimo gruppo di Madri cristiane e Figlie di Maria, attive non solo per le pratiche di pietà e l'istruzione religiosa, che regolarmente ricevevano, ma anche per le loro attività di apostolato, specialmente caritativo, e l'insegnamento catechistico ai fanciulli.
Egli perciò, sinceramente, affermava di non essere convinto delle ragioni per cui doveva abbandonare ciò che aveva compiuto, e bene, per tanti anni, per dedicarsi a nuove attività di A.C., in parte ignorate e lontane dalla sua mentalità, dalla sua esperienza e da quella dei parrocchiani.
Il fatto è vero, conosco il nome del parroco (nominato in seguito canonico dallo stesso vescovo che sapeva agire fortiter et suaviter, ma lo taccio perché non ho trovato documenti su di esso.
La discontinuità nelle forme dell'apostolato lo sterilizza e spesso vanifica; una prova ulteriore è data dalla stessa A.C. nella diocesi agrigentina: erano fiorenti le confraternite e le associazioni delle Madri cristiane e Figlie di Maria: furono abbandonate per incrementare l'Azione Cattolica.
Quando, poi, questa, anche per l'impegno dei papi Pio XI e Pio XII e del vescovo Peruzzo si era bene impiantata e dava i suoi frutti e più ancora ne avrebbe dati, essendosi radicata nella mentalità dei sacerdoti e nel costume dei fedeli, fu d'un tratto disciolta anzi combattuta e condannata a morte, a nome, anche, si diceva, dell'eguaglianza.
Un giovane parroco, ad una dirigente diocesana che lo invitava a leggere o a permettere che, all'inizio dell'anno sociale, si leggesse in chiesa un invito ad aderire all'A.C. e al suo programma, rispose negativamente spiegando: Che diranno gli altri gruppi?
Io non so se per la dissoluzione dell'A.C. ci fu un ordine segreto dall'alto di "rompere le righe", ma, anche se non ci fu, bastò il disinteresse o la cosiddetta "scelta religiosa" (l'azione cioè, non doveva più essere azione, come era sorta ed era cresciuta e si era affermata) per provocarne lo smantellamento o la morte per asfissia.
Ma che cosa l'ha sostituita? Un insieme di gruppi e gruppuscoli incontrollati e incontrollabili, a generazione spontanea (non si sa da quali radici e da quali mangimi nutriti) non pochi dei quali hanno talmente deviato da trasformarsi in chiesuole prima e poi in vere associazioni eterodosse, in nuclei di protestanti.

Una certa continuità nella Chiesa locale era permessa con l'elezione dei vescovi da parte del clero e del popolo che sceglievano un loro membro, formatosi, o nato e cresciuto tra loro, espressione naturale della comunità. Dico "una certa" perché non sempre, o quasi mai, le elezioni erano libere: il candidato veniva autorevolmente presentato, se non scelto e imposto; la elezione riusciva solo legalmente libera. La continuità storica e spirituale era perciò quasi sempre indebolita, spezzata, negata, sopraffatta.
Particolarmente in Sicilia la elezione o la scelta dei beneficiati era sottoposta al potere politico che agiva secondo i suoi interessi e perciò la scelta del vescovo, da parte dei papi, potè sembrare una liberazione; ma non fu meno soggetta agli interessi politici o personali di chi era in grado di scegliere, o di influire nella scelta, ai più diversi livelli.

Una particolare difficoltà per la storia ecclesiastica agrigentina, specialmente causata dalla perdita, quasi totale, dei documenti, fino al secolo XVI, è il fatto che quei pochi rimasti hanno, prevalentemente, carattere amministrativo e economico: sono contratti notarili di compravendita, rivendicazioni diritti e nulla, o pochissimo, offrono alla conoscenza della vita e situazione spirituale della comunità.
Mancano documenti che dall'interno permettano di collegare i fatti con i motivi e gli scopi di chi vi agisce, o li provoca, o li subisce; spesso si possono connettere ad episodi di cronaca, ma sfugge ciò che li lega dall'interno.
Può anche accadere il contrario: anche se, in qualche caso, possono non mancare cronache, diari, memorie, molto spesso però l'eterogeneità dei protagonisti e delle comparse, o dei documenti che li riguardano - non riuscendosi ad individuare i veri motori o attori - li disamina in un cumulo amorfo, li agglomera in un nodo inestricabile.
Specialmente per fatti o accuse poco edificanti o scandalosi non si riesce ad appurare la verità perché, spesso, sono stati coperti o dal timore dello scandalo, o dall'omertà, o dal perbenismo, o anche dalla carità.
D'altra parte, anche a conoscerli, cosa si sposta o si risolve?
L’uomo è sempre lo stesso: certo il singolo potrebbe essere conosciuto meglio; ma, nell'insieme, la realtà è sempre la stessa: peccato, grazia, chiamata e risposta o rifiuto: Pietro, Giovanni, Giacomo, Giuda: la contesa su chi è il più grande, o per diventarvi, il posto assicurato, la fuga dal Getsemani, il rinnegamento teorico o pratico, l'era dei martiri, delle eresie, la palude, la montagna, Tarpea, Campidoglio, Palatino e Suburra.

Poiché la diocesi non è la Chiesa, ma sua porzione, studiandone la storia si deve incessantemente risalire ad essa, come a fonte e flusso e fiume di cui è derivazione, diramazione.
Determinata la diocesi da studiare nelle componenti spaziali e temporali, se ne stabilisce o traccia: la cronologia (dalla nascita alla morte, se non esiste più Tagaste); la natura, non come ente giuridico uguale dovunque, ma come Chiesa attuata in quel tempo e in quello spazio; chi l'ha guidata con quanti ha collaborato o meno; i risultati (ma come quantificarli? I santi? I dati tratti dai libri parrocchiali, le opere realizzate?).
La diocesi può essere soggetto della storia se la crea e quando la crea e perciò per gli avvenimenti propri e i loro protagonisti.
Di solito la diocesi è costituita da popolazione affine per stirpe lingua, cultura, tradizioni, almeno da noi.
Secondo il can.369, la diocesi è la porzione del popolo di Dio che viene affidata alla cura pastorale di un vescovo con la cooperazione del presbiteri in modo che, aderendo al suo pastore e da lui riunita nello Spirito Santo, mediante il Vangelo e l'Eucaristia costituisca una Chiesa particolare in cui è veramente presente e operante la Chiesa di Cristo una santa cattolica e apostolica.
La sua unità è costituita - vescovo, presbiterio, fedeli, membra ma con funzioni diverse e convergenti nell'unico scopo: evangelizzazione, santificazione - nell'unità di tutta la Chiesa, non come in una confederazione.

Essendo uguale per tutti i credenti la natura della Chiesa - fede, sacramenti, vincoli giuridici e gerarchici - la diocesi, o Chiesa locale, è caratterizzata dalla comunanza e continuità, del vescovo, di tutte le istituzioni agenti nel territorio, ma anche dai legami, per così dire, di "famiglia", ma veri e storici che vincolano ai luoghi, ai santuari, ai Santi comuni - S. Calogero, S. Gregorio, S. Gerlando, S. Rosalia, B. Matteo, S. Alfonso de' Liguori e soprattutto la Madonna con i suoi titoli, particolarmente invocata nelle varie zone.

Nella genesi della Chiesa locale manca l'autodeterminazione perché, inizialmente, la diocesi, o le parrocchie, venivano delimitate dalle circoscrizioni civili; in seguito fu l'autorità ecclesiastica, d'accordo con la civile, a stabilirne i limiti, mai, però, se non formalmente, solo qualche volta, è stato richiesto il consenso o tanto meno la determinazione dei fedeli.

La Chiesa locale non è sovrana: la sua storia non può ricostruirsi, come quella di uno stato anche minimo (Monaco, Andorra, S. Marino) senza riferimento alla Chiesa universale o almeno alla metropolitana, quando c'è stata.
Tante volte perciò è difficile, se non impossibile, distinguere tra gli avvenimenti religiosi che sono comuni a tutta la regione o nazione e quelli peculiari di una Chiesa.

Spesso i vescovi sono stati, o sono considerati o si considerano, dei funzionari che eseguono ordini o applicano iniziative altrove programmate, direttive loro indicate o suggerite cui non possono o non sanno sottrarsi, o perché le condividono, o perché non hanno idee e coraggio per non condividerle, o perché è più facile e comodo adeguarsi, anche per un errato concetto di obbedienza che mortifica ogni autonomia inventiva e operativa.
Il Papa è il vescovo di Roma; io sono il vescovo di Caropepe; quindi siamo pari. Ragionamento mai apertamente formulato nemmeno con se stessi, ma perennemente vissuto, mancando l'autocritica sincera, non solo a livello di vescovi, ma anche ai più bassi gradi non dico della gerarchla, ma dell'organizzazione ecclesiastica: se la mia nomina è legittima, è ispirata da Dio; se l'autorità mi viene da Lui, io, scaccino, nell'ambito (e spesso fuori e sopra) delle mie mansioni, mi sento partecipe dell'autorità divina, sono un rappresentante di Dio; anzi, nella mia volontà, si rivela e manifesta quella di Dio: quindi bisogna farla valere in suo servizio. In ogni gradino così, salendo o scendendo, si può trovare e spesso si trova un superuomo, un sovrano assoluto, un tiranno.
Ne nascono le scimmiottature gerarchiche dal basso in alto; una celebrazione che si può tenere benissimo in chiesa si trasferisce in piazza o nello stadio; una circolare diventa un'enciclica; un modestissimo coro si paragona alla Cappella Sistina.
Tutto naturalmente su fondamento biblico: emulare i carismi migliori: l'autorità del papa è infallibile in "questioni di fede e di morale": nei gradini inferiori la si estende a tutti i casi; si decide, ordina, sentenzia e legifera: nessuno può sbagliare.

Il progressivo accentuarsi della monarchia papale ha reso i vescovi funzionari pontifici; le diocesi province proconsolari. Parallelamente all'assolutismo statale o regale, si affermò quello pontificio o della Chiesa: ogni specificità venne negata e sottratta alle chiese particolari, come testimonia l'imposizione della liturgia romana dalle decisioni tridentine, tanto che non si possono onorare i santi locali, anche i più antichi, senza un permesso di Roma.
Il continuo accentramento romano ha spersonalizzato le chiese locali standardizzando attività e iniziative. Si è quasi giunti a quel grado di uniformità calligrafica degli antichi codici che solo i grandi esperti riescono a distinguere.
Nè con il Vaticano II, e tutto quello che, a diritto o a torto, ne è derivato, questo processo di appiattimento è diminuito, che, anzi, è aumentato con le conferenze episcopali, regionali che tendono a livellare anche quel poco che era rimasto di particolare nelle Chiese locali.

Il codice di diritto canonico compilato dopo il Vaticano II, esautora completamente il capitolo cattedrale e trasferisce le sue precedenti funzioni al collegio dei consultori, organo elettivo e consultivo, non in grado di svolgere un'efficace funzione di cooperazione, anche controllando e dissentendo, nel governo di una chiesa particolare per tanti motivi: la etereogeneità e discontinuità dei membri, le difficoltà soggettive e oggettive nella conoscenza delle questioni, nei criteri per aiutare a risolverle, di convocazione e di presenza di tutti i componenti, oltre, naturalmente, la possibilità di predeterminarne o influenzarne l'elezione.
Mentre in altre nazioni i capitoli, nonostante tutto, vedi Germania, Svizzera, conservano i loro antichi diritti e doveri, perfino quello di intervenire nella scelta del vescovo, in Italia sono stati incaricati della sola preghiera ufficiale e perciò alleggeriti di ogni responsabilità; o forse si è loro applicata, o caricata, l'incombenza degli Atti (6, 2-3) riservando solo a sé stessi tutto l'altro.

L'infrangilegge

"Impune quaelibet facere, id est regem esse” , scrisse Sallustio. A volte nel vescovo e nel parroco si radica la stessa mentalità, perché manca un effettivo controllo su tutti gli atti del ministero e manca, soprattutto, una opinione pubblica, con organi tali da farsi conoscere e ascoltare e da incutere paura, o meglio timore, nel senso biblico, come derivazione dall'amore.
Mi pare che sia questo anche uno dei motivi per cui la stampa, la radio, la televisione gestite da ecclesiastici - eccetto quelle che sono esclusivamente espressione e nutrimento della pietà cristiana - hanno così poca diffusione e minore incidenza.
Lo scandalismo, la ricerca del sensazionale o di ciò che fa notizia, sono espedienti che hanno poca vita, sono spesso ingiusti e deludenti, ma l'assenza di critica onesta, giusta e sana, riduce e annulla la partecipazione: le "cose" della Chiesa sono "affari loro" non riguardano la maggior parte dei cittadini che pure sono, nella stragrande maggioranza, battezzati, dei fedeli, in genere; tantissime volte dei sacerdoti: sembra, a volte, di essere lavoratori di una grande industria: sono loro "i padroni" che la gestiscono; gli "operai" della Chiesa non hanno nemmeno il minimo dei diritti sindacali, altro che "partecipazione agli utili", come riconoscono i documenti pontifici "de re sociali” .

Il tiranno alferiano era l'infrangilegge, cosi è chi possiede un'autorità nella Chiesa: si sente un autocrate, a tutti i livelli: dal sacrista ai gradi più alti.
Le leggi che infrange, spesso, non sono quelle ecclesiastiche, che, di solito, anzi scrupolosamente, osserva, specie le liturgiche, e nemmeno, o sempre quelle divine che, in parte, osserva; ma quelle naturali, fondamentali, della verità, della rettitudine, della giustizia, della sincerità.
L'osservanza delle leggi ecclesiastiche richiede un tale sforzo di volontà, da esaurire la forza volitiva e perciò non si osservano le leggi naturali, anche perché esse non contano nella "carriera" ecclesiastica.

Moltissime diocesi italiane sono fornite di una o più pubblicazioni periodiche: mai vi si legge qualche nota critica verso i rispettivi pastori; al massimo qualche osservazione ipotetica o condizionale, oppure così velata e insinuata che solo pochi esperti possono comprenderla.
Il settimanale, o periodico diocesano, è libero di scrivere ciò che vuole su ogni argomento, eccetto su quanto proviene dal suo vescovo; più eccetto ancora, se potesse dirsi, da quelli che gli ronzano intorno e sono in lizza nella scalata al potere, nella gara cortigiana per conquistare il cuore di Federigo.
La libertà di opinione, anche in cose opinabilissime, e di espressione, non è mai gradita, raramente ammessa, quando non se ne può fare a meno, o può servire come arma contro gli emuli; è sempre foriera di rancori, radice di vendette che possono arrivare anche a distanza di anni, ma sono immancabili.
Chi comanda non ammette dissenso, essendo investito di autorità divina che sente il dovere di tutelare ad ogni costo.
Coloro poi che gli stanno vicini, per raggiungere tale vicinanza, sono stati, o si sono, sottoposti a lunghissimi sforzi, prove, esami: non per intelligenza, per competenza, per capacità si fa carriera, ma se si dà garanzia di sottomissione totale, acquiescenza integrale a chi tiene il bastone: soltanto così può meritarsi di poterlo portare di tanto in tanto, e sperare di poterne, un giorno, acquistarne un proprio.
Quando, finalmente, dopo tante umiliazioni, bocconi amari e velenosi, inghiottiti e digeriti, qualcuno emerge e arriva al potere vi scorge il dito di Dio, la sua mano che lo ha sostenuto nell'alpinistica scalata della parete, lo ha preservato, tenuto a galla.
La sua volontà così gli sembra di essersi talmente identificata con quella divina che tale, tutti, devono ritenerla; il suo successo è prova indubitabile che Dio è con lui e perciò, tutti gli altri, specialmente i sudditi, se vogliono trovare Dio, devono cercarlo in sua compagnia, all'ombra della sua esperienza, altrimenti non lo troveranno mai, tanto è il senso del divino che lo pervade, essendo arrivato così in alto.
La volontà di Dio è fondamentale in teologia e in ascetica e in tutta la vita cristiana: è la legge suprema.
Nell'organizzazione e nella vita ecclesiastica quasi sempre è identificata o identifìcabile con quella di chi comanda: questo non è condannabile nel suddito: può essere, anzi, fonte di santità; ma nel "superiore” -parola poco cristiana - assai spesso, diventa volontà propria perché si sente così intimamente rappresentante di Dio da conformare alla propria la volontà divina: ne deriva che chi non accetta la sua volontà, le sue vedute, si ribella a Dio, deve esserne severamente punito, anche per evitare il malesempio.

La divergenza

La diversità di vedute nella Chiesa - eccetto, naturalmente per le verità rivelate e definite - c'è sempre stata, di fatto, e continua ad esserci; ma, molto spesso, se non apertamente, è considerata dissenso da non tollerare e permettere da parte di chi comanda e dalla sua corte.
Grave errore dalle conseguenze disastrose, psicologicamente perchè produce avversione, rancore, spirito di rivalsa, amarezza, e, peggio ancora, discordanza - cioè la mancanza del cor unum - disinteresse - videant consules - deresponsabilità e intime, profonde divaricazioni e scissioni insanabili.
Bisognerebbe cercare di istituzionalizzare la divergenza, l'opposizione per creare una dialettica - ma nella carità e nell'amore alla Chiesa - feconda e capace di creare complementarietà.
Durante i lavori del Sinodo di mons. Peruzzo - vi fummo ammessi anche i diaconi - un gruppo di quelli che, pomposamente, erano chiamati "padri sinodali" preparò un documento non di dissenso, ma per una diversa impostazione e soluzioni di certe questioni pratiche; non solo non ne fu ammessa la lettura, ma non se ne tenne alcun conto: il sinodo era stato già scritto; il clero è convocato per ascoltarne la lettura; il vescovo è il solo legislatore: il placet dell'assemblea è un atto puramente formale, anche se manca, la pubblicazione del sinodo non ne viene impedita.

In una sua visione la ven. Sr. Maria Crocifissa vide Gesù come un medico che con la sua arte, anche di chirurgo, guariva le anime: ma non poteva far nulla per le piaghe che erano fasciate e coperte, tanto che non si scorgevano.
Nella Chiesa, non teoricamente, ma praticamente, da chi comanda si esclude che possano esserci delle piaghe: per questo Rosmini che cercava di evidenziarne qualcuna, fu condannato.
La "marcia", il pus, non avvelena la Chiesa, ma esiste nelle sue membra; chi tenta di spremerlo per curarle, o non è ascoltato, o viene deriso, perseguitato, sempre tenuto a distanza, come un illuso, un sognatore, o un malevolo.

Nella storia della Chiesa si ripete quel che avvenne nel popolo di Dio: scelto, eletto, non risponde ne corrisponde: si allontana; gli si indica la via, cerca le deviazioni; gli sviamenti.
L'autorità, è indiscutibile, viene da Dio; ma il suo esercizio è umano e non divino e quando si esercita su ciò che non è fede e morale, può anche sbagliare il supremo pastore; tanto più gli altri. Il dissenso, come si vede, chiaramente in tanti fatti ed esperienze della Chiesa antica, era ammesso, non ne spezzava l'unità, quando non riguardava la fede e la morale: la data della pasqua e del natale, il pane fermentato o azimo, le diverse liturgie: non si dovrebbe quindi estendere l'autorità fino a mortificare la libertà in tutto quello che non tocca l'ortodossia: la critica, la satira, l'umorismo sono ammissibili e possono svolgere un compito salutare.
Il consenso in tutto, e a qualunque costo, non solo genera ribellione interiore ma porta al disinteresse, o alla sola formale accettazione che è peggiore di una ribellione aperta.
Ci può essere un malcontento nato da errori, o singoli atti non conformi a verità e giustizia; e c'è un malcontento dovuto ad aspettative irrealizzabili o ad altre cause oggettive o soggettive: se non si offre una possibilità di sfogo, esso si trasforma in sordo rifiuto, in distacco interiore, irreversibile.

Di tanto in tanto compaiono libri o articoli - in certi periodici è una rubrica fissa - di "vaticanisti" che, prima o poi, producono qualche effetto, se denunziano errori, carenze, favoritismi, camarille, collusioni; ma, che io sappia, non ci sono, per esempio, "milanisti", "genovisti", "agrigentinisti" che facciano o abbiano fatto altrettanto.
Certo, nelle diocesi, e specialmente nelle più piccole e meno importanti, non si intrecciano le trame internazionali o "cattoliche" del Vaticano, ma le beghe provinciali, le trame dei piccoli ambienti sono spesso più intricate, pericolose, dannose: le radici in un vaso di terracotta, poco capiente e con poco humus, si ingarbugliano e si agliommarano talmente da rendere tisica la pianticella che vi dovrebbe crescere, disseccarla e ucciderla, per mancanza si alimento.

Il gusto di comandare

La rivoluzione francese fu affermazione di una eguaglianza civile e politica che fondamentalmente è cristiana, come il comunismo, in campo sociale ed economico.
Ma nella Chiesa c'è eguaglianza? Teoricamente, non potrebbe darsene una maggiore: tutti peccatori, tutti bisognosi e alimentati con gli stessi sacramenti, oggetti e soggetti degli stessi riti, tutti figli di Dio.
Ma che distanza tra un fedele e un prete, un vescovo, un papa!
Umiltà, autorità, come servizio... Come il marchese, erede di d. Rodrigo: "quanta ne bisogna per mettersi al di sotto di quella buona gente" - il bacio dei piedi il Giovedì Santo - ma non per istar loro in pari".

Nella Chiesa si trova anche il massimo di democrazia: tanto un pecoraio, quanto un non hidalgo (figlio di qualcuno) può diventare perfino papa; ma giunto a quella vetta (ma anche a qualche altura collinare e perfino al più basso gradino delle scala, il clericus, con i suoi privilegi) che distanza pone fra sé e gli altri!
E per scalare le preminenze?
E' la storia di tanti umili serventi, segretari, factotum di curie e vescovati: chi meglio si presta, chi più in basso si prostra – la proskunesis! - se appena possiede qualche spicciolo di intelligenza e riesce sempre ad inghiottite, imperturbabile, ogni boccone per quanto amaro sia, sfonda e ascende; poi ripeterà lo stesso giuoco o sistema con gli altri, sottoponendoli, come compenso per sé, alla stessa trafila, altrimenti che gusto ci sarebbe nel comandare?
La Chiesa per l’attuale organizzazione, per l'ordinamento suo feudale, anche contro la stessa volontà di suoi gerarchi, diventa sorgente e maestra di ipocrisia e di inganno.
Chi possiede un certo grado di ambizione e ferma volontà di carriera, non con molta difficoltà può conquistare dei posti chiave o lucrosi se riesce ad entrare nelle grazie di chi attualmente li detiene: non sono necessari ingegno e virtù: basta adulare e rendersi o simpatici, utili, o necessari: chi comanda non può augurarsi successori più validi e degni: non può sottrarsi al fascino di chi tanto lo apprezza: si crea così la solidarietà della paura con la ipocrisia, della dabbenaggine con la furberia.
Anche in uomini di indiscusso valore, c'è sempre una porticina, o uno spiraglio di finestra, che si apre con la magia delle parole mielate di lode.
E allora può anche entrarvi il delitto.

Poiché le scelte non possono avvenire per concorso - una volta solo per i gradi più alti della gerarchia, oggi per tutti i gradini, anche i più bassi, lasciati all'arbitrio di chi comanda - nè per elezione, perché nessuno ha voce attiva (eccetto qualcuno o qualche gruppo che è riuscito ad imporsi), esse avvengono - e non possono altrimenti - per clientela: bisogna aggregarsi a qualcuno, intrupparsi nel suo codazzo: se si riesce ad indovinare nella scelta del rais, presente o futuro, prima o poi, si conquista qualche quota collinare, per merito dei meriti di chi meritò di essere cooptato...

Il filo d’oro

Il rapporto Chiesa-popolo può considerarsi in due maniere: una prima in cui i due termini si fondono o meglio, denominano la stessa realtà: la totalità, dei convocati, (Ecclesìa o popolo di Dio); oppure in una seconda in cui i due termini si contrappongono: la Chiesa è costituita dai prescelti, o per la lenta selezione gerarchica, o per il rapido favoritismo clientelare.
Teoricamente l'identificazione o l'assimilazione è esatta; praticamente i chierici sono distinti, separati, contrapposti ai laici.
Anche se le barriere architettoniche di parecchi presbiteri sono cadute, permangono quelle mentali e morali e diventano più discriminatorie, divaricanti, anche, specialmente, tra vescovi e sacerdoti, dato che l'episcopato è un ordine a sé, più che la pienezza del sacerdozio.

I filologi hanno scoperto l'"apax legòmenon”; gli storici valorizzano l’apax genòmenon, mentre per gli scienziati il fenomeno si ripete immancabilmente, poste le stesse condizioni.
La scientificità della storia non riguarda la sua natura, ma il metodo investigativo per ottenere la certezza dei suoi fatti.
Ogni atto, di ogni persona, pur essendo uguale a tanti altri, e propri e altrui, è sempre singolare, unico, irrepetibile per tutto ciò che lo provoca, lo carica, lo finalizza e le imprevedibili conseguenze che possano derivarne.
Ogni storia ha il suo valore: la locale non è spregevole perché non nazionale, oppure universale.

Il campo è il mondo; il buon seme rappresenta i figli del regno, la zizzania sono i figli del maligno... (Mt. 13, 38).
La fine dell'età presente è dunque la fine della storia?
Sono i figli del regno rappresentati dal buon seme, perché il seminatore è il Figlio dell'uomo.
Ma il regno è la Chiesa: la storia è finalizzata alla sua fondazione e, cioè, all'affermazione e dilatazione del Regno: storia dunque del Regno di cui fanno parte ineliminabile le sue "province", dissodate, arate, seminate, preparate alla mietitura.
Se la storia, secondo Tucidide è "aquisto perenne" (Ktema eis aei) la sua mancanza è penuria e miseria; non mi illudo, certo, di avere offerto quanto i "lepta duo”; nella loro pochezza, però, sono sempre qualche cosa, specialmente da parte dell'offerente che non possedeva altro: spero e mi auguro che i due spiccioli possano servire all'incremento e alla maturazione delle messi, per prepararle alla mietitura.

"Opus aggredior opimum casibus” (affronto una materia ricca di avvenimenti) mi risuonava, come un ritornello, nell'animo - e poi, qualche giorno, queste parole risorgevano martellanti, ineludibili – quando cominciai a raccogliere le notizie storiche della Chiesa Agrigentina a coordinarle narrandole e mi pare che la materia sia stata veramente ricca, abbondante.
Posso aggiungere con Tacito: rara temporum felicitate, ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet e pure - senza vantarmi - proclamare di avere evitato l'adulazione e la denigrazione: adulationi foedum crimen servitutis mulignitati falsa species libertatis inest  (Per rara felicità di questi tempi puoi sentire ciò che vuoi ed esprimerlo; all'adulazione è insito l'infame delitto del servilismo, alla denigrazione una maschera di libertà - C. Tacito, Storie 2, 2).

Nella storia e nella Chiesa agisce Dio come Trinità: il Padre che la programma, il Figlio che la realizza nell'Incarnazione e per tutta la durata del tempo, lo Spirito Santo che la intesse e intreccia con la sua azione ispiratrice e santificatrice degli uomini e la reductio ad unitatem di tutte le vicende.
I credenti (e tutti gli uomini anche se inconsapevoli) la vivono nel mistero della parusia - divina presenza - e nel servizio della carità, in posizione guida, con 1'Odigitria, e, pur nella quotidianità umile e nascosta, entrano in quel programma, partecipano a quella realizzazione, a quell'intreccio - vogliano o non vogliano - perché omnia cooperantur in bonum - cercando di camminare in sanctitate et justitia, tutti i giorni, davanti a Lui; allora la storia diventa non solo perenne, ma eterno possesso.

Lo storico antico riteneva che gli eventi da lui narrati agli uomini egregi, accendessero nel loro cuore una fiamma: non si sarebbe spenta o sedata se non quando la "virtus” avrebbe fatto loro conseguire fama e gloria adeguate (C. Sallustio, De bello jugurtino, 4, 6).
Quelle degli eroi e di tutti i cristiani sono:
nuove conquiste e gloria
vinta in più belle prove.

Esse, in massima parte, restano ignote agli uomini - che cosa è dunque la storia della Chiesa? - e sono valutabili solo da Dio, lux et origo, finis et exordium che le connette, le indirizza, le conclude, omnia in omnibus, perché conosce tutta la trama, ne vede realizzato tutto il disegno - et erant valde bona - perché "un popolo ha udito la voce di Dio" (Dt. 4, 10).
Il filo d'oro che lega, ricama e trasvaluta tutta la storia della Chiesa e dell'umanità - la Sua misericordia di generazione in generazione – ha saputo discernere e far risaltare la Vergine Madre di Dio, lo strumento precipuo di essa, perché il "mistero della storia" ha una sua chiave interpretativa: il Signore "punto focale della storia e della civiltà, perché con lui andiamo incontro alla finale sua perfezione: ricapitolare in Cristo tutte lecose"(Gaudium et spes 45).
A conclusione di questo discorso, e di tutto il lavoro, potremmo adattare e mettere in bocca ad ognuno dei padri o protagonisti della storia della Chiesa Agrigentina le parole di San Paolo: "Ringrazio Dio per tutta la vostra storia (la vostra memoria; la storia, è infatti memoria delle meraviglie operate dal Signore, memoria mirabilium) pregando sempre con gioia per voi a motivo della vostra partecipazione (comunanza: koinonia) alla diffusione del Vangelo dal primo giorno sino al presente... Colui che ha inziato in voi quest'opera buona la porterà a compimento fino al giorno di Gesù Cristo... la vostra carità si arricchirà sempre più perché possiate essere integri e irreprensibili nel giorno di Cristo e ricolmi del frutto di giustizia, per Gesù Cristo, in gloria e lode di Dio" (Fil. 1, 3-10 passim).
Ma proprio nulla vediamo di questa trama segreta che la intesse e percorre, l'unifica e la trasvaluta - la si consideri, proprio, tragedia o dramma, meglio, con l'Alighieri, comedìa - e nonostante tutto la illumina di speranza?
Poco vediamo, ma possediamo la certezza - alla Sua parola ubbidiente l'avvenir rispose - che la Sua misericordia si stende di generazione in generazione: è, infatti, Alfa e Omega.

da La Chiesa Agrigentina, vol. V
Divisione in paragrafi e titoli in grassetto di stauropolis.com


“Tra i diversi servizi che la Chiesa deve offrire all’umanità, uno la vede responsabile in modo del tutto peculiare: la diaconia della verità”
(Giovanni Paolo II, Fides et ratio 2, 5 ).
LA DIACONIA DELLA VERITA’

Corre l’anno 2000 quando De Gregorio porta a compimento “La Chiesa Agrigentina”: oltre 2537 pagine in cui si danno appuntamento migliaia di documenti della nostra storia, religiosa e civile.
La titanica impresa è sigillata da un memorabile Discorso. Memorabile perché rappresenta la postfazione introduttiva dell’intera opera, ma anche per l’adamantina evangelica schiettezza che lo connota.

Discorre De Gregorio, corre nella direzione opposta, quella di un cristiano che vuol esser tale ad ogni costo, persino mettendo in dubbio la sua indubitabile retta intenzione.
Sa guardare al passato, perché “ignorare ciò che è accaduto prima della tua nascita, equivale ad essere sempre bambino” (Cicerone); ma sa guardare al presente, soprattutto: “Ogni vera storia è storia contemporanea” (B. Croce).

Afferma che nella vita della Chiesa “l’assenza di critica onesta, giusta e sana, riduce e annulla la partecipazione”! E, addirittura, che “bisognerebbe cercare di istituzionalizzare la divergenza, l’opposizione per creare una dialettica - ma nella carità e nell’amore alla Chiesa - feconda e capace di complementarietà”. Fino ad aggiungere: “in tutto quello che non tocca l’ortodossia: la critica, la satira, l’umorismo sono ammissibili e possono svolgere un compito salutare”.
“Il consenso in tutto, e a qualunque costo, non solo genera ribellione, ma porta al disinteresse, o alla sola formale accettazione che è peggiore di una ribellione aperta”. Al malcontento, “se non si offre una possibilità di sfogo, esso si trasforma in sordo rifiuto, in distacco interiore, irreversibile”.

Non sta commentando l’amarezza di tanti, in questi mesi, riguardo al tradimento dei piccoli perpetrato da preti mercenari, quando racconta di Isabella Crocifissa Tomasi. Alla Beata Corbera, in una visione, nostro Signore si sarebbe mostrato «come un medico che con la sua arte, anche di chirurgo, guariva le anime: ma non poteva far nulla per le piaghe che erano fasciate e coperte, tanto che non si scorgevano». Osserva: «Nella Chiesa, non teoricamente, ma praticamente, da chi comanda si esclude che possano esserci delle piaghe: per questo Rosmini che cercava di evidenziarne qualcuna, fu condannato. La “marcia”, il pus, non avvelena la Chiesa, ma esiste nelle sue membra».
E con ardimento profetico denuncia: «Le leggi che [l’autocrate di turno] infrange, non sono quelle ecclesiastiche, che, di solito, anzi scrupolosamente, osserva, specie le liturgiche, e nemmeno, o sempre, quelle divine che, in parte, osserva; ma quelle naturali, fondamentali, della verità, della rettitudine, della giustizia, della sincerità. L’osservanza delle leggi ecclesiastiche richiede un tale sforzo di volontà, da esaurire la forza volitiva, e perciò non si osservano le leggi naturali, anche perché esse non contano nella “carriera” ecclesiastica».

Allora, “non insegna proprio nulla la storia? No, qualche cosa insegna, anzi, molto: che bisogna lavorare, lottare, soffrire. Sperare anche” (A.M. Ghisalberti).
E ancora, “ma proprio nulla vediamo di questa trama segreta che la [storia] intesse e percorre, l’unifica e la trasvaluta…?
Poco vediamo, ma possediamo la certezza – alla Sua parola ubbidiente l’avvenir rispose – che la sua misericordia si stende di generazione in generazione: è, infatti, Alfa e Omega”.

Giovanni Scordino



DISCORSO SU SAN GREGORIO AGRIGENTINO
di Domenico De Gregorio (inedito)

Il Santo e lo scrittore

Alla civiltà e alla cultura Agrigento ha contribuito con molti suoi cittadini tra i quali, specialmente, sono ammirati Empedocle, Pirandello, San Gregorio Agrigentino che, pur vissuti a grande distanza, cronologica, ideale e religiosa tra loro, per istituzioni civili, per condizioni storiche, per interessi e mentalità, tuttavia hanno qualche cosa che li avvicina, pur nella loro diversità.

Gli studiosi moderni di Empedocle, come per esempio il Gallavotti (in Empedocle, Poema fisico e lustrale a cura di Carlo Gallavotti, Milano 1975) considerano i due poemi quello fisico e specialmente il lustrale, i Kathàrmoi, come una via stretta e difficile, àtrapos, come quella evangelica, al kerdos, al vero utile, privato e pubblico. Superato il monismo parmenideo, il panmetabolismo eracliteo, il pitagorismo orfico, si apre così il sentiero, difficile e aspro, verso l’umanesimo che, oltre la sofistica, approderà a Socrate.

Pirandello, denunciando e demolendo le illusioni degli uomini e denudandoli delle maschere, non è un distruttore: spazzato il perbenismo e il conformismo, tanto borghese che sinistrorso, con Lazzaro e la Nuova Colonia intravede nuovi cieli.

San Gregorio, con la severa meditazione sull’Ecclesiaste, intese rinnovare la sua Chiesa, dopo i tanti suoi travagli, di cui era stato personalmente vittima; ed offrire, non solo ai suoi fedeli, ma, a tutti gli uomini, per dirla con Tucidide, un aeiktéma, un perenne possesso e tesoro inesauribile.

La vita

Conosciamo le vicende di San Gregorio dal bios di Leonzio, egumeno del monastero romano di San Saba, che scrisse qualche decennio dopo la sua morte, sulle testimonianze di chi lo aveva conosciuto.
Per la conoscenza della topografia agrigentina e della Sicilia, se non agrigentino, o della diocesi, Leonzio potè essere un siciliano, dato che, specialmente tra i monaci residenti nell’Urbe, non pochi, in quei tempi erano siciliani o provenienti dalla Sicilia.
Dalla sua opera si ricava che fu un monaco dotto, conoscitore della vita e della cultura monastica, delle sacre scritture, molto spesso citate, e delle vite dei santi della tradizione greco-bizantina.
Scrive nella koiné del tempo, senza differenze particolarmente notevoli, largamente influenzata dai testi biblici, dagli agiografi precedenti e contemporanei.
La vita di Leonzio e il commento di San Gregorio sono stati pubblicati, per la prima volta, da Antonio Stefano Morcelli (1737-1821) in Venezia, nel 1791, poi riportati dal Migne nella sua Patrologia greca (vol. 98). Recentemente dal prof. Albrecht Berger è stata pubblicata l’edizione critica della vita di Leonzio con questo titolo: Leontios presbyteros von Rom, Das Leben des Heiligen Gregorios von Agrigent, Kritische Aufgabe, Uebersetzung und Kommentar von A. Berger (Berlin Akademie Verlag 1994-1995).
Il Morcelli stabilì la cronologia della vita dell’Agrigentino nella maniera più corrispondente alle circostanze storiche e biografiche; è preferibile perciò a quella del Gaetani che l’anticipa di un trentennio e a quella del Lanza che la posticipa addirittura di circa un secolo. Secondo, dunque, il Morcelli, San Gregorio nacque nel 559 in un sobborgo di Agrigento, detto Pretorio, che gli studiosi pongono tra la città e Naro. Affidato dai genitori al Vescovo San Potamione, venne educato e istruito nelle discipline ecclesiastiche.
A 18 anni, nel 577, partì da Agrigento per la Terra Santa, toccando prima Cartagine e Tripoli e raggiungendo Gerusalemme nel 579. Vissuto sul Monte degli Ulivi e poi nel deserto con un monaco che ne completò la formazione culturale e spirituale, nel 589 raggiunse Antiochia e poi Costantinopoli e Roma, dove visse nel nel monastero di San Saba. Nominato vescovo di Agrigento nel 590, nel 591-92, calunniato, arrestato e deferito al Pontefice, venne ricondotto a Roma e chiuso in carcere. Nel 594 fu riconosciuto innocente. Dopo un viaggio a Costantinopoli, ove dal Basiléus ottenne di potere adattare a chiesa cristiana un tempio pagano e poi costruire una altra chiesa ed episcopio, e anche ricchi doni a questo fine, nel settembre del 595 tornò ad Agrigento. Poiché, come asserisce Leonzio, morì in tarda età, si potrebbe collocare il suo dies natalis tra il 630 e il 649.
Le date del Morcelli, convengono con la situazione politica generale del Mediterraneo e dell’Oriente, prima dell’espansione dell’Islam, e sono molto vicine a quanto si ricava dal registro di San Gregorio Magno (590-604).
Con una lettera, infatti, dell’agosto del 591 il Papa ordina ai vescovi Gregorio di Agrigento, Leone di Catania e Vittore di Palermo di comparire davanti a Pietro, suo rappresentante in Sicilia. Leone e Vittore sono restituiti alle loro sedi (592-593); il processo di Gregorio dura a lungo: il Papa nel novembre del 592 richiede che siano inviati a Roma gli accusatori e i documenti contro il vescovo. La causa potrebbe non essere finita nel 594, perché in questo tempo, come si ricava da altra lettera di San Gregorio Magno, Pietro di Triocala era amministratore di Agrigento.
In altra lettera, del 603, dello stesso Papa, indirizzata ai vescovi di Sicilia, Gregorio è nominato per primo, precedendo anche Leone di Catania; si suppone perciò che sia stato il più anziano (per nomina?) dei vescovi siciliani del tempo.
Leonzio tratta a lungo del processo; dopo il suo esito positivo descrive così il ritorno del Santo in Agrigento: “Il Papa gli diede grandi doni e, avendolo benedetto, lo congedò perché andasse nella sua città. Il Papa gli diede la facoltà di distruggere l’altare che aveva edificato Leucio, l’eretico; gli concesse anche, perché lo accompagnassero, i due pii diaconi Agnello e Palombo perché stessero con lui sino a che avesse edificato la chiesa che aveva richiesto di costruire. Partiti dunque da Roma giunsero in Sicilia, nella città di Agrigento, il dieci settembre. Per volontà di Dio che lo salvò e operò con lui, giunsero al fiume e al sobborgo della città, detto Emporio, alla terza ora del giorno” (Leonzio, Vita di San Gregorio Agrigentino. Introduzione, traduzione e note di D. De Gregorio, Agrigento 2000 p. 95).
Descrive poi la processione liturgica dall’Emporio, oggi località San Leone, sino alla città, nella Valle dei Templi: “Entrarono nella città salmeggiando… Non andarono però nell’episcopio né nella chiesa; egli non volle nemmeno volgervi gli occhi e vederli, ma allontanandosene, pose la sua tenda fuori di un tempio idolatrico che si trovava vicino alle mura di mezzogiorno… E colà innalzò la veneranda croce, datrice di vita; dopo, pregando Dio, scacciò i demoni che vi erano nascosti nell’idolo di Eber e di Raps, restaurò il tempio nel modo più perfetto e lo dedicò ai santi e corifei apostoli Pietro e Paolo. Ordinò all’arcidiacono di soccorrere tutti i bisognosi della città, le vedove e gli orfani, dando il necessario. Avendo poi, in un anno, terminato la chiesa, la consacrò e colà compiva la sacra mistagogia; avendo in essa costruito anche delle celle adatte [convenienti] vi dimorava tranquillo e raccolto con i suoi” (ivi p.96-97).

Negli scrittori cristiani le citazioni bibliche sono, spesso, in sottile contrappunto con i fatti narrati; qui la frase: pose [o piantò] la sua tenda è una precisa citazione dalla Genesi (26,25) il cui brano perciò si deve tenere presente per capire meglio quanto Leonzio descrive.
I servi di Isacco avevano scavato due pozzi, ma, per questo, il patriarca e i suoi avevano dovuto litigare con i pastori di Gerar. Isacco, allora, si allontanò da quel posto e scavò un terzo pozzo per il quale non ci furono più liti e lo chiamò Recobot, che significa spazi liberi, dicendo: “Ora il Signore ci ha dato spazio libero affinché noi prosperiamo nel paese”. Di là andò a Bersabea e quella notte gli apparve il Signore che gli rinnovò le promesse. “Allora - conclude il sacro autore - egli costruì in quel luogo un altare e invocò il nome del Signore e lì piantò la tenda”.
Il parallelismo stabilito da Leonzio è evidente e l’azione di San Gregorio è delineata con tutta chiarezza e precisione: Egli pianta la sua tenda fuori del tempio pagano posto presso il muro meridionale, vi innalza la croce; poi, con la duplice operazione tipica di ogni consacrazione liturgica, lo purifica scacciandone i demoni acquattati nelle statue e nei simboli pagani, togliendoli dal tempio e adattandolo al culto cristiano, nel modo migliore (òraion); lo dedica infine agli Apostoli Pietro e Paolo. Festeggia l’evento con opere di carità che non sono soltanto occasionali, ma vuole permanenti, come ordina all’arcidiacono.
Continua Leonzio con altro periodo anch’esso assai denso: “Inoltre, dopo un anno, avendo portato a compimento il tempio [la nuova chiesa - anche se adopera la stessa parola nàon - quella, cioè, per la quale aveva ottenuto l’assenso dell’imperatore] - edificate nella città un’altra chiesa e un altro episcopio [en te pòlei enoikodomèsai nàon èteron kai episkopèion] (Berger 95, 3-49) - lo consacrò…”.
All’imperatore che aveva chiesto a San Gregorio perché volesse edificare una nuova chiesa e un nuovo episcopio, il Vescovo ne aveva spiegato il motivo: Leucio, l’antivescovo - o amministratore che fosse - della Chiesa Agrigentina, eretico, già ridotto allo stato laicale, per volontà dei congiurati ai suoi danni, aveva distrutto l’altare della cattedrale, buttando le reliquie su cui sorgeva; aveva poi fatto ribenedire la chiesa da due vescovi eretici. Queste ragioni sembrarono all’imperatore più che sufficienti perciò regalò a San Gregorio una metà delle rendite della città (l’altra metà gliela aveva dato il Papa, a cui apparteneva) e poi gli disse: “Costruisci la nuova chiesa fedele a Dio e l’episcopio come vuoi”. Ordinò poi che si desse al santo il documento scritto della sua decisione e del permesso di costruire la nuova chiesa e nuovo episcopio e molti beni (ktémata pollà).
Avendo dunque concluso la narrazione riguardante la trasformazione del tempio pagano con gli ordini dati all’arcidiacono, Leonzio prosegue: “Inoltre, dopo un anno, avendo compiuto la chiesa, la consacrò (afierosen). In essa fece anche delle stanze adatte [buone, convenienti]”. La parola qui usata (chrèsima) è stata la crux interpretum, pensando di dover collocare tali ambienti nel tempio della Concordia, mentre in realtà si tratta delle comode stanze dell’episcopio in cui il Vescovo Gregorio e i suoi vivevano in raccoglimento e preghiera.
Da Leonzio sono dunque chiaramente distinti il tempio pagano, riadattato in poco tempo e dedicato a San Pietro e a San Paolo, e la chiesa costruita in un anno. La vicinanza dei due periodi e l’eguaglianza dei termini ingenerano - e anche noi l’abbiamo provata - una certa confusione se non si legge attentamente quanto scritto da Leonzio che, pur essendo breve, non è oscuro.

La “spiegazione” dell’Ecclesiaste

Per quanto sconcertante, contestatario, enigmatico il Qohèlet, l’Ecclesiaste, è uno dei libri della Sacra Scrittura più coinvolgente, più prensile perché afferra, avvince, stringe e costringe con quel ritornello ineludibile: “Havel havalim, hebel”; mataiòtes, mataiotèton. “Vanità”, cioè vapore, fumo, polvere, ombra, nulla: attribuito a tutti gli aspetti e manifestazioni della vita, che martella, monotono, ma inesorabile; è una sonda che si avvita e perfora l’intimo, distruggendo, una dopo l’altra, tutte le illusioni, tutti gli ameni inganni della vita, strappando tutte le maschere.
Amaro sino al pessimismo più radicale - ma vero, con la tragica domanda senza risposta: Che vale? per ogni più diffuso, creduto, sognato valore, per ogni più affascinante prospettiva - il Qohèlet possiede una forza catturante irresistibile perché, con l’evidenza suprema di una innegabile, ineludibile realtà, si impone con l’irremovibile violenza di un masso, caduto dalla montagna, che sbarra la strada, di un urto che spinge sull’orlo dell’abisso.
Dalla lettura del Qohèlet - scrisse A. Maillot - non si esce indenni, ma adulti o pronti a diventalo (La Contestation, Commentaire de l’Ecclesiaste, Lion 1971).
Per questo San Gregorio scelse il Qohèlet per commentarlo alla sua Chiesa: la sua spiegazione non è rivolta al clero, ai monaci o in genere alle anime consacrate, come pensa qualche studioso: non poche esortazioni del santo, infatti, guardano a situazioni o circostanze della vita comune, sono contro i vizi in cui tutti possono cadere.
La sua, in tutto il commento, è una impietosa demolizione della mentalità egoistica ed edonistica, della condotta malvagia degli uomini, tutta impregnata di superbia, di avarizia, di lussuria, di cupidigia, di disprezzo e sfruttamento degli altri.
Solo dopo la purificazione dalle più gravi e deleterie passioni terrene si possono gettare le basi di un vero mutamento del cuore e della mente, la genuina conversione, su cui innalzare l’edificio spirituale della dignità umana e della santità cristiana.
Questo scopo risponde perfettamente alle esigenze della sua Chiesa e del suo popolo, dopo il suo ritorno da Roma, riconosciuta la sua innocenza e rivalutata in pieno, come narra Leonzio, dalle più alte autorità della Chiesa e dello Stato, la sua persona e la sua capacità di compiere la missione affidatagli.
Lungamente, infatti, la Chiesa agrigentina, priva del suo pastore, era stata travagliata e avvelenata dai contrasti, dalle lotte, dagli odi di parte che l’avevano divisa e lacerata; dallo scisma dell’antivescovo istallatosi nella cattedrale; dagli egoismi sfrenati dei pretendenti il soglio vescovile e dei rispettivi clienti e seguaci che li sostenevano o si combattevano tra loro, non per amore del bene ma per il profitto - certamente non spirituale - che potevano ricavare o perdere, dalla sconfitta o dalla vittoria di uno degli stessi pretendenti; e, soprattutto - come è costante, anche se inconfessata e inconfessabile esperienza - dalle più compunte ipocrisie, dalle più verosimiglianti maschere di bene, dai più spettacolari e, a volte, improvvisi misticismi con cui si ama orpellare le passioni più brute per il potere, il denaro, il piacere, il prestigio e anche la vendetta contro gli avversari.
Non si può rilevare dai testi che conosciamo, se alle lotte dell’ambizione o dell’egoismo si mescolassero anche controversie dottrinali, come sembra probabile per i precisi riferimenti ad Aezio ed Eunomio, ma, certo, lo stesso accanimento dei contendenti per la cattedra vescovile - che però si accordano per tessere l’infame calunnia e perdere San Gregorio - non è indice di fede e di fiducia in Dio, nella presenza e azione dello Spirito Santo nella vita della Chiesa, né di una immacolata teologia o di una coerente ecclesiologia, ma di una concezione pagana, praticamente atea, della Chiesa, considerata come centro e mezzo di potere, e del ministero pastorale come fonte di prestigio, di arricchimento, come strumento per imporsi agli altri e sugli altri.
Il commento di San Gregorio all’Ecclesiaste - nato forse da una lettura continua e spiegazione tenute al popolo - fu composto, come accenna Leonzio, nell’ultimo periodo della sua vita.
Lo scopo del Qohèlet, come egli l’intendeva nella sua lettura cristiana, è di liberare le anime dalle attrattive sensibili per innalzarle ai beni eterni; il suo metodo esegetico perciò consiste nel confrontare le parole ispirate del l’Ecclesiaste con le esperienze quotidiane della vita per trarne ispirazione a meditazioni salutari.
Egli ordinariamente cerca, prima di tutto, il significato letterale del testo per poi innalzarsi a quello anagogico o allegorico, non per fermarsi in speculazioni astratte, ma per ridiscendere ad applicazioni pratiche alla vita cristiana.
Come l’Ecclesiaste, così l’Agrigentino “con termini facili e naturali insegna e presenta dottrine spirituali e, con denominazioni sensibili, rappresenta cose mistiche, contro le comuni opinioni e preannunzia quelle future ad utilità e salvezza degli ascoltatori prudenti” (San Gregorio Agrigentino, Spiegazione dell’Ecclesiaste 21,1132 A).

Attualità di San Gregorio Agrigentino

In questi ultimi tempi gli studi su San Gregorio Agrigentino sembrano rinascere, come testimoniano i lavori dedicati al nostro dal prof. Sandro Leanza dell’Università di Messina; l’edizione critica della vita di Leonzio del prof. A. Berger e quella del Commento all’Ecclesiaste che prepara il p. G. Ettlinger e da tanto aspettiamo.
Credo si possa ritenere provvidenziale la riscoperta e quasi la rivitalizzazione e la rivalutazione dell’Agrigentino nel nostro tempo.
Questa nostra civiltà che vive, nel meglio che possiede, per il fermento cristiano in cui lievitò l’eredità di Atene e di Roma, è avvelenata e dominata dall’agnosticismo, dall’ateismo, dal materialismo, principalmente pratico, dall’idolatria pagana del denaro, del sesso e del successo, senza la bellezza dell’Olimpo e del Parnaso; annienta la legge e relativizza l’etica, schiavizzando così l’uomo a potenze occulte che totalmente lo signoreggiano.
San Gregorio Agrigentino, memore forse di Origene che paragonò l’uomo di Dio ad un erborista, conoscitore delle piante, che sa opportunamente scegliere quella adatta a guarire la malattia, adoperò le sue riflessioni sull’Ecclesiaste per guarire i mali del suo popolo.
Tornì oggi, con il suo commento, a richiamare, rimproverare, scuotere e persuadere, svelando la nullità delle umane illusioni, la vanità dei beni terreni non regolati dalla legge della morale e dell’amore, soprattutto a illuminare, incoraggiare e guidare gli uomini ad operare il bene e a tendere a Dio.
Con questi voti conclude il suo Commento: “Affinché, ritmando con il timore di Dio la vita e custodendo i suoi salutari comandamenti, desideriamo di piacere a Lui e con ogni sforzo ci impegniamo, secondo le possibilità umane, ad evitare ogni peccato, per conseguire una beata fine e nel giorno del giudizio essere annoverati con i giusti, tra gli eredi”(1180 D).



BIBLIOGRAFIA di DOMENICO DE GREGORIO (1923 - 2006)
OPERE EDITE

1954
- II Canto XXIII del Paradiso. Lectura Dantis (Palermo)

1956
- Ottocento Ecclesiastico Agrigentino. I. Mons. D.M. Lo Jacono (Agrigento)

1957
- La logica di Porto Reale (Firenze)

1959
- Breve storia della Chiesa, in In Veritate (Firenze)

1961
- Per il LX di messa di Mons. G.B. Peruzzo (Agrigento)

1962
- Profili di sacerdoti agrigentini (Agrigento)

1964
- La "Legenda" e l'antico ufficio ritmico di S. Gerlando (Agrigento)

1965
- Cammarata, in Paesi di Sicilia (Palermo)

1966
- L'unità di spirito nel vincolo della pace (Roma)

1967
- Chiamati figli di Dio tali realmente siamo! (Roma)
- Mons. Domenico Turano (Palermo)

1968
- Ottocento Ecclesiastico Agrigentino. II. La sede vacante (Agrigento)

1971
- Mons. G.B. Peruzzo (Trapani)

1975
- S. Gerlando. Storia e tradizioni popolari (Agrigento)

1977
- Il Crocifisso di Siculiana (Agrigento)
- San Calogero. Studio sul Santo e il suo culto (Agrigento)

1978
- Il Can. G.B. Castagnola. La grutta di Betlem (Agrigento-Palermo)

1980
- P. Girolamo da Cammarata (Palermo)

1981
- S. Caterina di Alessandria e il suo culto in Cammarata (Cammarata)

1982
- Il Card. Giuseppe Guarino (Messina)

1983
- Il Card. Guarino, uomo di Dio (Messina)

1984
- Ottocento Ecclesiastico Agrigentino. III. Gli episcopati di Mons. G. Blandini e di Mons. B. Lagumina (Agrigento)
- La devozione al Crocifisso in Cammarata e S. Giovanni Gemini (S. Giovanni Gemini)
- Il clero agrigentino e Garibaldi, in L’evento garibaldino nel territorio di Agrigento (Agrigento)
- Il cardinale Giuseppe Guarino. Un grande pastore emerge dall’oblio (Messina)

1985
- Mons. Giovanni Horozco de Leyva de Covarruvias, Vescovo di Agrigento (Agrigento)

1986
- Don Michele Martorana (Agrigento)
- Cammarata. Notizie sul territorio e la sua storia (Agrigento)

1988
- P. Timoteo Longo O.P. Fondatore delle Domenicane del Sacro Cuore (Agrigento)
- San Gerlando. Vita, scritti e tradizioni popolari (Agrigento)
- Suor Maria Dolores Di Majo (Palermo)

1989
- Gli insegnamenti teologici di S. Gregorio di Agrigento nel suo commento all'Ecclesiaste (Roma)
- La Cassa Rurale ed Artigiana di S. Giovanni Gemini. Dalle origini e Don Michele Martorana (Agrigento)
- G. Blandini, Ora Santa davanti Gesù Sacramentato (S. Giovanni Gemini)

1990
- Antonino Petyx, eroe della carità (Agrigento)
- Lettere di direzione spirituale di Mons. A. Ficarra alla Sig.na A. Traina (Agrigento)

1991
- Post fata resurgo, in Bibliotheca Lucchesiana publico donata (Palermo)

1992
- San Calogero nella storia del nostro popolo, in Il Santo Nero (Agrigento)

1993
- San Gerlando e la situazione di Agrigento dopo la conquista normanna, in Arabi e Normanni in Sicilia (Agrigento)
- San Giovanni Gemini. Notizie storico-religiose (Agrigento)
- La Biblioteca Lucchesiana di Agrigento (Palermo)
- Il quadro dei Diecimila Martiri nella Matrice di Cammarata (Agrigento)

1994
- L'Arciconfraternita del SS. Crocifisso di Agrigento (Agrigento)
- All’ombra della Croce – Giulietta Guaia (Agrigento)

1996
- La Chiesa Agrigentina. Notizie storiche. I. Dalle origini al sec. XVI (Agrigento)

1997
- La Chiesa Agrigentina. Notizie storiche. II. Dal XVI al XVIII secolo (Agrigento)

1998
- La Chiesa Agrigentina. Notizie storiche. III. Il secolo XVIII (Agrigento)

1999
- La Chiesa Agrigentina. Notizie storiche. IV. L'Ottocento (Agrigento)
- Mons. A. Ficarra. Dalla nascita all'episcopato (Patti)
- Gregorio di Agrigento evangelizzatore esemplare, in In Charitate Pax (Palermo)

2000
- La Chiesa Agrigentina. Notizie storiche. V. 1900-1963 (Agrigento)
- Tre Vescovi agrigentini (Agrigento)
- Gemma Presulare (Agrigento)
- Leonzio, Vita di S. Gregorio Agrigentino (Introduzione, traduzione e note. Agrigento)
- S. Gerlando, La dialettica (Introduzione, traduzione e note. Agrigento)
- Don Michele Sclafani (Agrigento)
- Il mare nell'Apocalisse, in Iconografia sacra ispirata al mare (Taranto)

2001
- G. Blandini, Ora Santa davanti a Gesù Sacramentato (Introduzione – In Appendice: A. De Liguori, Visita al SS. Sacramento / Misteri del Rosario in siciliano. Cammarata)

2002
- I misteri del Rosario in siciliano (Agrigento)

2003
- San Calogero. Studio sul Santo e il suo culto (II edizione riveduta ed ampliata, a cura di Giovanni Scordino e Maria Grazia Crescente - Agrigento)
- Ottobrata rosariante (Agrigento)

2004
- Racconti Cammaratesi, in Mille balconi ad Oriente (Cammarata)
- Il Venerabile P. Gioacchino La Lomia (Canicattì)
- Il venerabile padre Gioacchino (Agrigento)

2005
- ‘A Beddamatri. Titoli e scritti mariani (Agrigento)

2006
- Cammarata. II. Cronache dei secoli XIX e XX (Cammarata. Postumo)
- La Parrocchia di carta. Editoriali de "L’Amico del Popolo" 1976-2001 (Agrigento. Postumo)

2008
- Signum Salutis. La Cattedrale di Agrigento e i suoi emblemi (Agrigento. Postumo)

Questa bibliografia di stauropolis.com, la più completa ad oggi, è da completare.
Manca, inoltre, un elenco della sterminata produzione di articoli, comparsi su varie riviste, e particolarmente sul settimanale agrigentino L'Amico del popolo.



MIRABILE FRATERNITA'

Sebbene l’emblema valga “come parola figurata” (G.C. Argan), mentre il simbolo conservi e proponga la profonda tensione tra concetto e forma, sostanzialmente l’emblematica si risolve nella simbolica, come la specie nel genere. Non è un caso che le etimologie di emblema e simbolo convengono eziologicamente nella “tessera”, quadrata o cubica: posta insieme ad altre nel mosaico; accostata nelle sue parti (prima scomposte) al fine di ri-conoscere e ri-conoscersi. Inoltre, «il simbolo definisce il luogo in cui l'elemento logico e quello figurativo si incontrano, rappresenta il punto intermedio tra logos e figura» (F. Kaulbach).

Di contro, è necessario porre in opportuna evidenza quanto sia oggi soverchia la determinazione di schiacciare il simbolo – e quel “di più” a cui rimanda – su di una embematica malandrinamente svuotata; col proposito di privare l’emblema – che con il suo tratto convenzionale e la sua funzione eminentemente sociale, sembra costituire la vulgata del simbolo – del suo radicamento esistentivo, del suo additare un oltre e un sopra, piuttosto che un “tutto qui” gravitazionale, immancabilmente tendente al basso. Un po’ come in quell’aneddoto in cui si narra di un saggio che indica la luna e dello stolto che guarda il dito dell’astrofilo.
Il proposito appare quello di far sì che ci si attesti su quanto è dato “a prima vista”, consacrato dal martellamento di mantra neo-tribali.

Indubbiamente la dimensione simbolica attraversa tutta quanta la Bibbia, dal Genesi all’Apocalisse, e trova straordinaria espressione nelle parabole evangeliche. Anzi, sembra proprio che la parabola – emblematica nella sua illustrazione e simbolica nel suo linguaggio – rappresenti il punto di confluenza dei due Testamenti.
Leggiamo, infatti, in Matteo 13, 35, a commento della “parabola del seminatore”: «…perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: “Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (Sal 77, 2)». Da una espressione di Agostino d’Ippona (“Novum Testamentum in vetere latet, Vetus in novo patet”, il Nuovo Testamento è celato nell'Antico, l'Antico si manifesta nel Nuovo) potremmo ardire concludere che le due Alleanze, nell’accostamento propriamente simbolico delle parti, si inverano reciprocamente, testimoniano l’una per l’altra!
Non solo. Nella narrazione della parabola del seminatore rinveniamo le esatte coordinate del linguaggio simbolico.
Il simbolo non “batte il marciapiede” delle gigantografie pubblicitarie, non si concede al primo che passa, ad uno sguardo distratto: chiede tempo e comprensione, attenzione e gradualità; disdegna le molte parole a vantaggio dell’esperienza e della conoscenza condivisa, della delicata familiarità; esige una corte insistente e garbata, riconosce piena legittimità “espressiva” al silenzio. Il simbolo, infatti, si comprende, non si apprende; non si impara, ma si frequenta: con gli occhi, la mente, gli affetti, l’anima. Non racconta se stesso in una volta, nè parla solo all’umanità di un certo periodo storico: il simbolo è simile a un cristallo, che rifrange la luce in mille modi. Rivela e testimonia, ma nel contempo tace e nasconde in vista di un "di più"; velo e specchio, enigma e parabola, allusione a una superiore realtà che può soltanto rappresentare, ma non sostituire (G. Kranz); è tanto più eloquente quanto più capace di arrestarsi sulla soglia dell’ineffabile; tanto più silente quanto più aperto al Verbo senza confini.
E quando ci si contentasse di giustapporre figura e significato, si avrebbe solo l’illusione di una spiegazione, come recitando una poesia in lingua straniera senza conoscerne il significato.
La parabola, allora, rappresenta un formidabile accesso all’essenziale, mentre la forma simbolica protegge il messaggio, come in un inviolabile scrigno: non svelandolo che a destinatari preparati a riceverlo, aperti alla sua comprensione, e consentendogli di attraversare i secoli senza subire adulterazioni.

D’altra parte, l'uso che Luca fa nel suo Vangelo di symballein, coglie il simbolo nel suo pieno dinamismo: «Maria custodiva tutte queste parole collegandole insieme in cuor suo» (2,19), accostando realtà apparentemente inconciliabili: l’Infinito e il suo bambino, il Mistero nascosto da secoli e la vita di ogni giorno… E se da una parte comunica un'esperienza totale e unificante, dall'altra reca lo stigma della frattura. Per questo suo presentarsi come la composizione non confusa di visibile e invisibile, il simbolo è stato eletto come sinonimo di “confessione di fede”, e come mentore del linguaggio della religione cristiana e delle sue espressioni nell’arte, di realtà «che non conosco ma ho tuttavia presente nel simbolo» (K. Jaspers).
Il simbolo ci sta davanti, ma si compone con ciò che ci sta dentro. Esso fa affiorare una interiorità magari sepolta, capace di senso e di futuro. Questa interiorità “primaria” unisce l’individuale al collettivo, l’emblema alla sua matrice.

Ma, per quanto oggi, non infrequentemente, immagine e segno siano oltre misura abusati e spalmati sui terminali dei “nuovi” culti del profitto, la loro forza di persuasione si conferma senza alcun dubbio straordinaria. Sembra proprio che non riusciamo a fare a meno dei simboli, di immagini che prendano il posto di idee. Sembra proprio che non riusciamo a fare a meno del gioco di creare codici e di decodificarli. Non solo viviamo in un mondo di simboli, ma un mondo di simboli vive in noi (J. Chevalier).

Per questo abbiamo bisogno che qualcuno ci prenda per mano, e ci conduca lì dove il simbolo rivela il suo senso e mette insieme i pezzi della nostra identità personale e sociale, storica e creaturale.
E’ quanto si propone questa “mistagogia” di Domenico De Gregorio.
La presente pubblicazione - che raccoglie articoli apparsi sul settimanale L’Amico del Popolo dal 2 giugno al 14 luglio 2002 – offre, poi, l’opportunità di porre l’accento su un aspetto decisivo della figura di De Gregorio, sulla sua eccezionale capacità di “di-vulgatore” cioè di comunicatore che ha messo a disposizione del più vasto pubblico il risultato della sua paziente, immane, profonda ricerca. Tale indagine ha attraversato molte regioni dello scibile, ma in alcune ha più a lungo soggiornato, mentre in altre ha stabilito splendida dimora. In queste ha voluto che tutti, cattolici e cercatori del vero, cultori delle scienze e analfabeti, potessero accedere liberamente, attraendoli con i vincoli di una oratoria semplice e suadente, di una scrittura fine e luminescente.
De Gregorio non ci introduce esclusivamente alla comprensione delle decorazioni emblematiche della chiesa Cattedrale, o a quella catechesi globale che il tempio massimo della diocesi rappresenta: la sua è una iniziazione al Mistero del Dio Incarnato, in un tempo e in uno spazio ulteriormente “abbreviato”, contratto.
Sulla soglia tra il naturale e il sopra-naturale, sullo stigma del simbolo, ci invita ad inforcare il suo vecchio binocolo, per leggere la fantasmagorica rappresentazione del credo cristiano che i nostri Padri seppero comporre, innervata di profonda intensità; sintesi di idea, immagine e predicazione, finalizzata ad un apostolato pienamente modellato sulle coordinate della creazione e della redenzione.
Ci si potrà specchiare in allodole, girasoli, fulmini e salamandre… scoprendo quella trama profonda delle cose, la misteriosa e mirabile “fraternità” che lega pietre e uomini, animali e piante cantata da Francesco d’Assisi.
Padre De Gregorio, rimuoverà parte di quel velo che oggi sembra ispessirsi sul simbolo, ma che, in realtà, è sopra gli occhi divenuti incapaci di leggerlo.

Giovanni Scordino, Signum Salutis. La Cattedrale di Agrigento e i suoi emblemi, Presentazione



CHE DEL PADRE CALOGERO

Dopo oltre venticinque anni mons. Domenico De Gregorio torna col pennello della sua religiosa e rigorosa narrazione sulla splendida figura che del Padre Calogero ci aveva consegnato.
Non si tratta di un restauro di quel ritratto, né di una ridipintura: quell’immagine nulla aveva perso della sua divina suadenza. La ritocca, la tocca di nuovo, per noi, con noi, come uno di quei tanti umili devoti che si accostano fidenti alla sacra effigie: “Pensava infatti: Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello…” (Mt 9, 20).
Sì, il lembo del mantello. Del Signore. Quel lembo che è Calogero, quel lembo che è la nuda fede dei poveri.
Un frammento, certo. Ma come di quel pane, seminato per via nella fiaba, che mette sulla giusta Strada, ce ne indica il sicuro percorso. Un pegno, uno squarcio sulle quinte della vita.

I Santi sembra proprio che siano un po’ tutti in quell’icona - tanto cara ai siciliani e a quell’oriente che porta con sé il Bel Vecchio - dove la Madre di Dio indica con la sua bella mano il Figlio, l’Odigitria.
Tutti lì, i Santi: lembo, frammento, mano tesa.
Soprattutto per coloro che cercano respiro tra le pieghe di una storia, la propria, che sembra senza senso, se non addirittura maledetta; per coloro che si ostinano con Calogero a rinvenire le tracce di Dio nell’uomo, e lì - curvi sui piedi del Maestro Signore - gli prestano culto; per i “violenti che si impossessano del Regno” riconducendo in se stessi l’uomo a Dio.
Perché ora la Beata Trinità, in Gesù - Dio veramente e veramente uomo - ha fatto sua, in tutto, la nostra storia, carne e sangue di ogni uomo e di ogni donna.

Una piccola cosa, quel lembo. Ce lo offre mons. De Gregorio, dopo averlo stretto fra le mani durante una malattia, come ci si avvince a un legno nel naufragio.
Ed io con lui: lo consegniamo come pane, votivo, da spezzare, da condividere. Sfiorandosi la mano, lasciando che una stilla del pianto dell’altro ci bagni e che la rugiada di qualche nostra intima gioia sia partecipata.

Continua così l’avventura del Padre Calogero. Anzi ha un cominciamento nuovo. In chi guardandosi allo specchio - lo specchio della Croce piantata su tutte le alture che salgono al cielo dell’estasi e scendono nella valle del silenzio trafitto - magari e proprio leggendo queste pagine, rinviene i lineamenti del Bel Vecchio, innamorato di Dio, speso per gli uomini, nel di Lui Nome e per amor Suo. E in quello sguardo riconosce l’unica Passione per l’onore del Padre e la causa dei figli. La Passione del Maestro Signore che rapì il cuore di Calogero.

Prefazione alla IIa edizione del libro di Domenico De Gregorio su San Calogero e il suo culto
 
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